Vajont, 62 anni dopo: la memoria che unisce terre e migranti

Oggi ricorre il 62° anniversario del disastro del Vajont, avvenuto nella valle omonima tra Veneto e Friuli Venezia Giulia dove, alla fine degli anni Cinquanta, fu costruita la diga a doppio arco più alta del mondo, capace di sottendere un bacino idroelettrico di oltre 150 milioni di metri cubi d’acqua.
La sera del 9 ottobre 1963, alle 22:39, una frana di circa 270 milioni di metri cubi precipitò nel lago artificiale, sollevando un’onda alta quasi 200 metri. L’acqua fece piovere enormi massi sull'abitato di Casso, distrusse intere frazioni di Erto e, una volta superata la diga, la sua forza distruttrice si abbatté sulla città di Longarone e sulle sue frazioni situate a fondovalle. Il bilancio fu terribile: 1910 vittime ufficialmente accertate.
Nel 2008, designato Anno Internazionale del Pianeta Terra, l’UNESCO ha riconosciuto la catastrofe del Vajont come il caso più emblematico, in epoca recente, di una tragica concatenazione di errori umani e scientifici nella valutazione del rischio geologico.
Nel maggio 2023, l’UNESCO ha inoltre inserito l’Archivio Processuale del Disastro della Diga del Vajont nel Registro Internazionale Memoria del Mondo, istituito nel 1992, per salvaguardare il patrimonio documentario di valore universale, fondamentale per la tutela e la trasmissione della memoria collettiva.
Accanto agli aspetti tecnici e storici, esiste però una dimensione spesso meno raccontata: quella dell’emigrazione.
Il disastro del Vajont non coinvolse solo chi abitava quei luoghi, ma anche chi, da quelle terre, era partito per emigrare e chi, invece, vi era arrivato per lavorare. Storie di migrazione che si incrociano nella stessa tragedia, accomunate dal desiderio di costruire un futuro e dalla ferita profonda lasciata da quella notte.
Erano uomini e donne che, come accade ancora oggi, avevano lasciato la loro terra per inseguire un futuro migliore, portando con sé la nostalgia dei luoghi e degli affetti lontani e il sogno, un giorno, di poter tornare.
Per molti emigranti longaronesi, però, quel sogno di ritorno si spense tragicamente nella notte del 9 ottobre 1963.
All’alba del giorno seguente, i giornali e le radio di tutta Europa diffusero le prime notizie frammentarie. Incredulità e angoscia percorsero le comunità di emigranti: era difficile realizzare che, in una sola notte, case, strade, ricordi e persone amate fossero svanite per sempre. Il quotidiano La Notte riassunse lo strazio degli emigranti rientrati in fretta: “Gli emigranti tornano a casa con il vestito nero in valigia”. Alcuni, come la signora Ada De Col – rientrata dal Regno Unito poco prima del disastro – perse la vita insieme alle altre 1909 ufficialmente riconosciute.
Il disastro del Vajont segnò anche l’inizio di nuove migrazioni. Gli abitanti di Erto e Casso, già provati dagli espropri per la costruzione del bacino e da anni vissuti con la paura che l’intero paese di Erto potesse un giorno sprofondare nel lago, furono costretti a lasciare le loro case e a ricostruire comunità altrove, come nel nuovo paese di Vajont, sorto nella pianura pordenonese. Non tutti, però, si rassegnarono: alcuni decisero di ribellarsi e, nonostante i divieti di legge, tornarono a vivere nei luoghi rimasti, mossi da un legame indissolubile con le loro montagne.
In questo contesto, emerge un legame profondo tra la valle del Vajont e l’Abruzzo. Negli anni della costruzione, decine di minatori di Lettomanoppello (PE) partirono per lavorare al cantiere della diga. Soprannominati "acrobati delle dighe" per la loro capacità di operare appesi a vertiginose pareti di roccia, alcuni pagarono quel lavoro con la vita, come Antonio Nicolai.
Dopo il disastro, il legame con l’Abruzzo si rafforzò ulteriormente, grazie a figure chiave come il giudice Mario Fabbri, il giudice istruttore del processo ai responsabili del Vajont nativo marchigiano ma che aveva prestato servizio come cancelliere presso la Pretura di Nereto (TE), e tanti soccorritori abruzzesi come il tenente degli Alpini Vittorio Valentini di Francavilla al Mare (CH). Inoltre, il processo penale si svolse nei primi due gradi presso il Tribunale de L’Aquila per legittima suspicione.
Questo filo che unisce il Vajont e l’Abruzzo è stato custodito e rinnovato anche da chi, come altri prima di lui, ha portato la propria vita lontano dall’Italia. Andrea Di Antonio, emigrato abruzzese nel Regno Unito, con il progetto Voce del Vajont ha raccolto anni di ricerca per mantenere viva la memoria e rafforzare il legame tra la sua terra e la valle ferita. Il suo impegno ha portato, nel maggio 2025, alla firma di un patto di amicizia tra i Comuni di Teramo e Longarone, dopo quello siglato con L’Aquila nel 2011.
Il disastro del Vajont non è solo la pagina di cronaca di una tragedia evitabile, ma anche la storia di comunità spezzate, di famiglie distrutte, di case e paesi cancellati. Molte vittime non furono mai ritrovate né identificate. Oggi, nel cimitero monumentale di Fortogna, nel Comune di Longarone, una serie di cippi commemorativi rende omaggio alle vittime della tragedia.
Ricordare il disastro del Vajont significa dare voce a chi non l’ha più, onorare la dignità di chi ha perso tutto e rafforzare i legami che tengono unite le comunità.
Significa anche riconoscere il ruolo di chi è emigrato, prima o dopo quella notte, le storie dei migranti originari della valle, di quelli - anche abruzzesi - che vi giunsero per lavorare alla diga o di quanti furono impegnati, all’indomani della tragedia, nei soccorsi e nei processi giudiziari. La tragedia del Vajont non appartiene solo al passato: è un’eredità collettiva che continua a parlarci, ad unirci e ad interrogarci.
Voce del Vajont: il legame con l'Abruzzo
Vajont, un disastro italiano. Gli acrobati delle dighe. [Teche Rai]: "Dal TV7 del 28 ottobre 1963, un servizio sugli operai che presero parte alla costruzione della diga del Vajont, e tra i quali vi furono le prime vittime di quest'opera colossale, negli anni del rischioso cantiere: moltissimi erano abruzzesi, originari dei paesi di Lettomanoppello e Manoppello."
[Foto di copertina "Molti emigrati tornano al paese" di Gianfranco Moroldo - Corriere della Sera]
9 ottobre 2025